Mozart morì il 5 dicembre del 1791, tre mesi dopo la première della Clemenza di Tito, e dunque non seppe mai che l’illustre festeggiato di allora gli sarebbe sopravvissuto solamente per poco più di un anno: Leopoldo II di Asburgo Lorena, che il 6 settembre 1791 veniva incoronato re di Boemia a Praga (già alla testa del sacro romano impero, e re d’Ungheria e Croazia, dall’anno precedente), era il ‘Tito’ che riceveva in dono un’opera di bellezza lancinante. Probabilmente ne fu consapevole, da melomane qual era (malattia di famiglia: si rileggano le Memorie di Lorenzo Da Ponte in proposito), ma è certo che, una volta salito al trono del fratello Giuseppe II (morto il 20 febbraio 1790, meno di un mese dopo il debutto di Così fan tutte), il sovrano dovette operare profondi cambiamenti alla corte di Vienna. L’impero attraversava gravi difficoltà, la nobiltà ungherese e boema premeva sulla capitale, mentre la Révolution era deflagrata nel 1789, coinvolgendo nei suoi furori Maria Antonietta, sorella di Leopoldo e Giuseppe. Il nuovo Cesare dovette cedere su più fronti, per mantenere un po’ di pace nei suoi confini, e ci riuscì, anche se la morte gl’impedì di attuare una vera politica di largo raggio. Peccato, perché quanto aveva fatto come Granduca di Toscana poteva far ben sperare quanti credevano nel progresso. Nel 1786 fu infatti il primo al mondo ad applicare i principi dell’illuminista Cesare Beccaria nel cosiddetto Codice leopoldino, che in un colpo solo abolì la lesa maestà, la confisca dei beni, la tortura e la pena di morte (pena che il fratello, famoso per le sue riforme ‘illuminate’, peraltro ritirate nell’ultimo periodo di vita, non aveva ancora cancellato del tutto). Leopoldo, sovrano contrario a ogni forma di autoritarismo e fedele a ideali costituzionali, meritava che il vecchio libretto di Metastasio, scritto per festeggiare suo nonno Carlo VI nel 1734 – dunque un soggetto di famiglia –, venisse ripreso per celebrare anche lui. E certamente le radici ideali di quel testo dovevano piacere a Mozart che, come massone, coltivava fra i propri ideali quello del sovrano ‘illuminato’. Ma dopo tante intonazioni (una quarantina circa fino a quel momento) il musicista lo volle adeguare alle sue esigenze, e chiese al poeta Caterino Mazzolà che fosse ridotto «a vera opera», come annotò nel suo catalogo delle opere. «Ma cosa voleva dire per il compositore del Don Giovanni scrivere negli stessi mesi della Zauberflöte un’opera seria che fosse anche una ‘vera’ opera?», si chiede nel saggio introduttivo Sergio Durante, autorevolissimo specialista di questo titolo e del suo autore, che prosegue: «sta in questa domanda la problematicità della Clemenza di Tito, il capolavoro mozartiano che più di ogni altro ha patito incomprensioni e travisamenti». Secondo Emanuele d’Angelo, che si occupa più da vicino del libretto (ma riflettendo nella prospettiva più vasta della drammaturgia e sugli ipotesti dell’opera), era probabile che Mozart contestasse più che altro la struttura antiquata del lavoro, visto che Mazzolà «chiamato all’arduo e ingrato compito di mettere le mani su un testo assai prestigioso e oggetto di devota letteraria ammirazione, di profanare insomma uno dei sacri parti teatrali del sommo poeta cesareo, taglia, cuce e ricama con estrema finezza e bravura, e le sue suture sono generalmente impercettibili, coi suoi pazienti e devoti mosaici di tessere metastasiane solo di rado accantonati per materiale nuovo di zecca ma profumato d’Arcadia passata, lontana, deliziosamente polverosa (incipriata)». In ogni caso il risultato di questo lavoro di cesello, in barba ai pregiudizi dei critici – soprattutto quelli che scrivevano in pieno Ottocento, difensori ad oltranza della Zauberflöte «ceppo della tradizione operistica romantico-tedesca», come scrive Durante –, figura fra i capolavori del teatro in musica d’ogni tempo, e apre la via al rinnovamento formale e di contenuto del secolo successivo. Nella Clemenza di Tito di Mozart e Mazzolà i personaggi stilizzatissimi dell’opera seria d’antan che infilavano arie una dopo l’altra prendono una nuova vita, in un rapporto di reciprocità che lievita intorno al protagonista. Tito è il perno intorno al quale ruota l’azione, e su cui si scaricano le tensioni della vicenda. Vive in relazione agli altri, ma ciò non lo rende una sorta di automa (come qualcuno ha scritto), incapace di sentimenti propri, bensì mette in risalto la sua totale dedizione alla ragion di stato e onora l’asserto del titolo ch’è pure il tema dell’opera: la clemenza. Inoltre «rinunciando di fatto all’amore», come osserva d’Angelo, Tito «non si rivela uxorius, soggetto a una donna e dunque impedito nel sereno controllo delle passioni e nella posposizione del privato al pubblico», come invece accade al suo amico fraterno Sesto. Dopo aver analizzato la soluzione geniale adottata da Mozart e Mazzolà per il finale primo, anche sotto il profilo scenografico, Durante chiude in maniera condivisibile: Il finale dell’atto primo prevedeva l’impiego delle masse entro un apparato scenografico che utilizzava sia il proscenio che un lungo spazio posteriore nel corso dello spettacolare incendio del Campidoglio. Insomma, una ricerca del grande effetto ma forse soprattutto, a due anni dalla presa della Bastiglia, di una simmetrica contrapposizione fra il finale primo, emblema dell’angoscia legata al disordine politico ed il finale secondo, apoteosi dell’ordine ritrovato grazie alla clemenza di un sovrano ideale. Tuttavia, quale che sia la grandezza di un sovrano, non è mai consigliabile che un popolo si affidi unicamente alla sua giustizia, invece che maturare una propria convinzione nell’interesse comune.

Wolfgang Amadeus Mozart, «La clemenza di Tito»,

GIRARDI, Michele
2014-01-01

Abstract

Mozart morì il 5 dicembre del 1791, tre mesi dopo la première della Clemenza di Tito, e dunque non seppe mai che l’illustre festeggiato di allora gli sarebbe sopravvissuto solamente per poco più di un anno: Leopoldo II di Asburgo Lorena, che il 6 settembre 1791 veniva incoronato re di Boemia a Praga (già alla testa del sacro romano impero, e re d’Ungheria e Croazia, dall’anno precedente), era il ‘Tito’ che riceveva in dono un’opera di bellezza lancinante. Probabilmente ne fu consapevole, da melomane qual era (malattia di famiglia: si rileggano le Memorie di Lorenzo Da Ponte in proposito), ma è certo che, una volta salito al trono del fratello Giuseppe II (morto il 20 febbraio 1790, meno di un mese dopo il debutto di Così fan tutte), il sovrano dovette operare profondi cambiamenti alla corte di Vienna. L’impero attraversava gravi difficoltà, la nobiltà ungherese e boema premeva sulla capitale, mentre la Révolution era deflagrata nel 1789, coinvolgendo nei suoi furori Maria Antonietta, sorella di Leopoldo e Giuseppe. Il nuovo Cesare dovette cedere su più fronti, per mantenere un po’ di pace nei suoi confini, e ci riuscì, anche se la morte gl’impedì di attuare una vera politica di largo raggio. Peccato, perché quanto aveva fatto come Granduca di Toscana poteva far ben sperare quanti credevano nel progresso. Nel 1786 fu infatti il primo al mondo ad applicare i principi dell’illuminista Cesare Beccaria nel cosiddetto Codice leopoldino, che in un colpo solo abolì la lesa maestà, la confisca dei beni, la tortura e la pena di morte (pena che il fratello, famoso per le sue riforme ‘illuminate’, peraltro ritirate nell’ultimo periodo di vita, non aveva ancora cancellato del tutto). Leopoldo, sovrano contrario a ogni forma di autoritarismo e fedele a ideali costituzionali, meritava che il vecchio libretto di Metastasio, scritto per festeggiare suo nonno Carlo VI nel 1734 – dunque un soggetto di famiglia –, venisse ripreso per celebrare anche lui. E certamente le radici ideali di quel testo dovevano piacere a Mozart che, come massone, coltivava fra i propri ideali quello del sovrano ‘illuminato’. Ma dopo tante intonazioni (una quarantina circa fino a quel momento) il musicista lo volle adeguare alle sue esigenze, e chiese al poeta Caterino Mazzolà che fosse ridotto «a vera opera», come annotò nel suo catalogo delle opere. «Ma cosa voleva dire per il compositore del Don Giovanni scrivere negli stessi mesi della Zauberflöte un’opera seria che fosse anche una ‘vera’ opera?», si chiede nel saggio introduttivo Sergio Durante, autorevolissimo specialista di questo titolo e del suo autore, che prosegue: «sta in questa domanda la problematicità della Clemenza di Tito, il capolavoro mozartiano che più di ogni altro ha patito incomprensioni e travisamenti». Secondo Emanuele d’Angelo, che si occupa più da vicino del libretto (ma riflettendo nella prospettiva più vasta della drammaturgia e sugli ipotesti dell’opera), era probabile che Mozart contestasse più che altro la struttura antiquata del lavoro, visto che Mazzolà «chiamato all’arduo e ingrato compito di mettere le mani su un testo assai prestigioso e oggetto di devota letteraria ammirazione, di profanare insomma uno dei sacri parti teatrali del sommo poeta cesareo, taglia, cuce e ricama con estrema finezza e bravura, e le sue suture sono generalmente impercettibili, coi suoi pazienti e devoti mosaici di tessere metastasiane solo di rado accantonati per materiale nuovo di zecca ma profumato d’Arcadia passata, lontana, deliziosamente polverosa (incipriata)». In ogni caso il risultato di questo lavoro di cesello, in barba ai pregiudizi dei critici – soprattutto quelli che scrivevano in pieno Ottocento, difensori ad oltranza della Zauberflöte «ceppo della tradizione operistica romantico-tedesca», come scrive Durante –, figura fra i capolavori del teatro in musica d’ogni tempo, e apre la via al rinnovamento formale e di contenuto del secolo successivo. Nella Clemenza di Tito di Mozart e Mazzolà i personaggi stilizzatissimi dell’opera seria d’antan che infilavano arie una dopo l’altra prendono una nuova vita, in un rapporto di reciprocità che lievita intorno al protagonista. Tito è il perno intorno al quale ruota l’azione, e su cui si scaricano le tensioni della vicenda. Vive in relazione agli altri, ma ciò non lo rende una sorta di automa (come qualcuno ha scritto), incapace di sentimenti propri, bensì mette in risalto la sua totale dedizione alla ragion di stato e onora l’asserto del titolo ch’è pure il tema dell’opera: la clemenza. Inoltre «rinunciando di fatto all’amore», come osserva d’Angelo, Tito «non si rivela uxorius, soggetto a una donna e dunque impedito nel sereno controllo delle passioni e nella posposizione del privato al pubblico», come invece accade al suo amico fraterno Sesto. Dopo aver analizzato la soluzione geniale adottata da Mozart e Mazzolà per il finale primo, anche sotto il profilo scenografico, Durante chiude in maniera condivisibile: Il finale dell’atto primo prevedeva l’impiego delle masse entro un apparato scenografico che utilizzava sia il proscenio che un lungo spazio posteriore nel corso dello spettacolare incendio del Campidoglio. Insomma, una ricerca del grande effetto ma forse soprattutto, a due anni dalla presa della Bastiglia, di una simmetrica contrapposizione fra il finale primo, emblema dell’angoscia legata al disordine politico ed il finale secondo, apoteosi dell’ordine ritrovato grazie alla clemenza di un sovrano ideale. Tuttavia, quale che sia la grandezza di un sovrano, non è mai consigliabile che un popolo si affidi unicamente alla sua giustizia, invece che maturare una propria convinzione nell’interesse comune.
2014
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