Nelle opere francesi della seconda metà dell’Ottocento si fa sovente uso di droghe: per veri e propri trip orientali, come quello di Kornélis che va mentalmente in Giappone per vie allucinatorie nella Princesse Jaune di Saint-Saëns (1871), ad esempio; e se si fuma l’oppio a Damasco nella Statue di Reyer (1861), anche Cio-Cio-San, nella messinscena francese di Madama Butterfly (1906), offre al console una «pipe d’opium». Dev’essere molto potente anche la bevanda che il grande bramino offre a Vasco e Sélika per celebrare il loro matrimonio nell’Africaine (IV.4-5), visto che il tenore esclama, barcollando: Quel trouble!… quel vertige!… la raison m’abandonne… où suis-je? À mes regards un voile a couvert le passé, qui s’enfuit loin de moi comme un rêve effacé. E che subito dopo rivolge una corte spietata alla principessa, sino a quel momento umiliata nei sentimenti che nutre per lui, ma soprattutto nella sua natura femminile, tanto che Vasco si era spinto fino a donarla come schiava alla rivale Inès, l’immortale amata, nobildonna spagnola. Moglie e buoi dei paesi tuoi? Secondo Anselm Gerhard, che scrive il saggio d’apertura in questo volume, Nell’assetto di quest’opera le ambizioni del protagonista maschile sono spaccate tra l’interesse per una donna, sia pure amata, che desidera sposare e un’amante che desidera tout court. A prescindere da tutta l’ambientazione esotica, L’africaine mette in scena i rapporti tra i sessi com’erano peculiari della società ottocentesca e come ci sono ben noti grazie a un’altra opera lirica emblematica: La traviata. Rispetto a una prima lettura del libretto e a differenza dell’opera di Verdi, la donna desiderata non si sacrifica per la gloria o il conforto dell’uomo amato. Lasciando l’ultima parola all’amore eterno e quasi sovrumano di Sélika, Meyerbeer capovolge i rapporti tra sesso ‘forte’ e sesso ‘debole’. Nella grande scena del Manzaniglio, che chiude l’opera, Sélika percepisce, immersa nel delirio mortale, un «coro di spiriti aerei» che solo lei ode: è scelta di grande modernità, che anticipa la psicanalisi guardando alla tragedia classica (basti pensare al coro a bocca chiusa che accompagna Butterfly nella veglia notturna, in attesa di Pinkerton). Nell’allucinazione, l’amato la raggiunge in cielo, davanti a un Brahma radioso, su un carro trainato da un cigno (un mezzo di trasporto caro anche a Lohengrin). Ma in un attimo di lucidità subentra l’amarezza: «C’était un songe!», esclama la donna prima che Nélusko, suo compagno d’avventure nonché amante infelice, la raggiunga per condividere con lei almeno la fine drammatica. Peccato che il musicologo Fétis, incaricato di fornire una versione dell’Africaine per la prima assoluta del 28 aprile 1865, dopo la morte del compositore avvenuta un anno prima, abbia trasformato questo passaggio in una sorta di ascesi al cielo di taglio cattolico, lasciando del coro originale solo la parte che annuncia all’agonizzante il soggiorno dell’eterno amore, come fossero angeli del cielo accompagnati dalle quattro arpe, qui strumento di preghiera e non d’estasi erotica. Anche Tommaso Sabbatini, che nel secondo saggio risale alle intenzioni reali di Scribe e Meyerbeer (compiendo un’ investigazione originale e brillante sulla genesi di questo lavoro), mette in rilievo questo aspetto –«È chiaro (specie se si riaprono i tagli praticati da Fétis) che nell’agonia Sélika appaga il desiderio erotico frustrato: le sue ultime parole, «c’est le bonheur!», sono significative». E nella guida all’opera, di Emanuele Bonomi, il lettore potrà trovare un commento esteso agli scorci eliminati e/o trasformati (e, per i travisamenti si leggano, in particolare, le note nn. 30 e 47, relative all’atto III e al V) oltre che disporre di un aiuto indispensabile per avvicinare le complesse bellezze di questa partitura enorme, annidate in ogni pagina. Studiando l’opera balza agli occhi un sistema di relazioni musicali in cui L’africaine occupa una posizione centrale: oltre a fornire alimento, con numerose finezze timbriche, al Berlioz trattatista, Meyerbeer guardò alle trovate del collega con estrema attenzione (particolarmente alla Symphonie fantastique), nel mettere sotto i riflettori «un conflitto razziale rappresentato icasticamente anche dal colore della pelle delle due antagoniste, proprio come avrebbe fatto Verdi di lì a poco, in Aida» (come nota Bonomi). E creando l’immane scena di massa nell’atto quarto ha fornito un precedente ulteriore per lo scorcio del Trionfo nell’opera esotica del compositore italiano. Quanto a Wagner: «l’idea di timbro associato all’azione, ma in grado di plasmarne ulteriormente il messaggio, è uno dei tanti debiti che l’antisemita Wagner contrasse con l’ebreo Meyerbeer». Ed è inoltre difficile che sfugga la parentela della sua tavolozza armonica, almeno nella fase ‘romantica’, con quella del collega da lui tanto esecrato (si legga l’inizio della bibliografia), che non venga in mente il ruolo drammaturgico del filtro d’amore (Meyerbeer iniziò a lavorare sulla sua opera esotica prima che Wagner portasse a termine il Tristan und Isolde) e che lo sbarco del cigno non ci possa sembrare una sottile ironia da parte di un gentiluomo israelita nei confronti di un antisemita inveterato. Li differenzia enormemente proprio l’etica e l’ideologia: se L’africaine è una ferma condanna del fanatismo e dell’imperialismo, incarnati da inquisitori, bramini, notabili, oltre che da un eroe negativo, un popolo inferiore sferraglia nel Nibelheim senza affrancarsi, e un filtro d’amore è sempre pronto per gli amanti wagneriani, che si tratti di predestinati come Tristano e Isotta, oppure di eroi recalcitranti e immaturi, come Sigfrido.

Giacomo Meyerbeer, «L’africaine»

GIRARDI, Michele
2013-01-01

Abstract

Nelle opere francesi della seconda metà dell’Ottocento si fa sovente uso di droghe: per veri e propri trip orientali, come quello di Kornélis che va mentalmente in Giappone per vie allucinatorie nella Princesse Jaune di Saint-Saëns (1871), ad esempio; e se si fuma l’oppio a Damasco nella Statue di Reyer (1861), anche Cio-Cio-San, nella messinscena francese di Madama Butterfly (1906), offre al console una «pipe d’opium». Dev’essere molto potente anche la bevanda che il grande bramino offre a Vasco e Sélika per celebrare il loro matrimonio nell’Africaine (IV.4-5), visto che il tenore esclama, barcollando: Quel trouble!… quel vertige!… la raison m’abandonne… où suis-je? À mes regards un voile a couvert le passé, qui s’enfuit loin de moi comme un rêve effacé. E che subito dopo rivolge una corte spietata alla principessa, sino a quel momento umiliata nei sentimenti che nutre per lui, ma soprattutto nella sua natura femminile, tanto che Vasco si era spinto fino a donarla come schiava alla rivale Inès, l’immortale amata, nobildonna spagnola. Moglie e buoi dei paesi tuoi? Secondo Anselm Gerhard, che scrive il saggio d’apertura in questo volume, Nell’assetto di quest’opera le ambizioni del protagonista maschile sono spaccate tra l’interesse per una donna, sia pure amata, che desidera sposare e un’amante che desidera tout court. A prescindere da tutta l’ambientazione esotica, L’africaine mette in scena i rapporti tra i sessi com’erano peculiari della società ottocentesca e come ci sono ben noti grazie a un’altra opera lirica emblematica: La traviata. Rispetto a una prima lettura del libretto e a differenza dell’opera di Verdi, la donna desiderata non si sacrifica per la gloria o il conforto dell’uomo amato. Lasciando l’ultima parola all’amore eterno e quasi sovrumano di Sélika, Meyerbeer capovolge i rapporti tra sesso ‘forte’ e sesso ‘debole’. Nella grande scena del Manzaniglio, che chiude l’opera, Sélika percepisce, immersa nel delirio mortale, un «coro di spiriti aerei» che solo lei ode: è scelta di grande modernità, che anticipa la psicanalisi guardando alla tragedia classica (basti pensare al coro a bocca chiusa che accompagna Butterfly nella veglia notturna, in attesa di Pinkerton). Nell’allucinazione, l’amato la raggiunge in cielo, davanti a un Brahma radioso, su un carro trainato da un cigno (un mezzo di trasporto caro anche a Lohengrin). Ma in un attimo di lucidità subentra l’amarezza: «C’était un songe!», esclama la donna prima che Nélusko, suo compagno d’avventure nonché amante infelice, la raggiunga per condividere con lei almeno la fine drammatica. Peccato che il musicologo Fétis, incaricato di fornire una versione dell’Africaine per la prima assoluta del 28 aprile 1865, dopo la morte del compositore avvenuta un anno prima, abbia trasformato questo passaggio in una sorta di ascesi al cielo di taglio cattolico, lasciando del coro originale solo la parte che annuncia all’agonizzante il soggiorno dell’eterno amore, come fossero angeli del cielo accompagnati dalle quattro arpe, qui strumento di preghiera e non d’estasi erotica. Anche Tommaso Sabbatini, che nel secondo saggio risale alle intenzioni reali di Scribe e Meyerbeer (compiendo un’ investigazione originale e brillante sulla genesi di questo lavoro), mette in rilievo questo aspetto –«È chiaro (specie se si riaprono i tagli praticati da Fétis) che nell’agonia Sélika appaga il desiderio erotico frustrato: le sue ultime parole, «c’est le bonheur!», sono significative». E nella guida all’opera, di Emanuele Bonomi, il lettore potrà trovare un commento esteso agli scorci eliminati e/o trasformati (e, per i travisamenti si leggano, in particolare, le note nn. 30 e 47, relative all’atto III e al V) oltre che disporre di un aiuto indispensabile per avvicinare le complesse bellezze di questa partitura enorme, annidate in ogni pagina. Studiando l’opera balza agli occhi un sistema di relazioni musicali in cui L’africaine occupa una posizione centrale: oltre a fornire alimento, con numerose finezze timbriche, al Berlioz trattatista, Meyerbeer guardò alle trovate del collega con estrema attenzione (particolarmente alla Symphonie fantastique), nel mettere sotto i riflettori «un conflitto razziale rappresentato icasticamente anche dal colore della pelle delle due antagoniste, proprio come avrebbe fatto Verdi di lì a poco, in Aida» (come nota Bonomi). E creando l’immane scena di massa nell’atto quarto ha fornito un precedente ulteriore per lo scorcio del Trionfo nell’opera esotica del compositore italiano. Quanto a Wagner: «l’idea di timbro associato all’azione, ma in grado di plasmarne ulteriormente il messaggio, è uno dei tanti debiti che l’antisemita Wagner contrasse con l’ebreo Meyerbeer». Ed è inoltre difficile che sfugga la parentela della sua tavolozza armonica, almeno nella fase ‘romantica’, con quella del collega da lui tanto esecrato (si legga l’inizio della bibliografia), che non venga in mente il ruolo drammaturgico del filtro d’amore (Meyerbeer iniziò a lavorare sulla sua opera esotica prima che Wagner portasse a termine il Tristan und Isolde) e che lo sbarco del cigno non ci possa sembrare una sottile ironia da parte di un gentiluomo israelita nei confronti di un antisemita inveterato. Li differenzia enormemente proprio l’etica e l’ideologia: se L’africaine è una ferma condanna del fanatismo e dell’imperialismo, incarnati da inquisitori, bramini, notabili, oltre che da un eroe negativo, un popolo inferiore sferraglia nel Nibelheim senza affrancarsi, e un filtro d’amore è sempre pronto per gli amanti wagneriani, che si tratti di predestinati come Tristano e Isotta, oppure di eroi recalcitranti e immaturi, come Sigfrido.
2013
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