Si avverte un’aria di famiglia fra le varie teorie politiche (tendenzialmente di sinistra) che di recente stanno arrivando in Europa dagli Stati Uniti. Sebbene queste si presentino quanto mai varie per ciò che concerne modalità operative, obiettivi finali, scelta dei soggetti politici di riferimento, un paio di immediatamente visibili capisaldi teorici le pongono all’interno di una tradizione condivisa, una tradizione che di volta in volta è state definita come postmodernismo, post-strutturalismo, costruttivismo radicale o, a destra, marxismo culturale. L’aria di famiglia sorge dal sostrato comune che queste teorie ospitano in termini di approccio epistemologico e politica identitaria. L’approccio epistemologico è largamente costruito a partire dal concetto di astrazione: i rapporti di potere vigenti, e in questi l’elemento dominante (i bianchi, i maschi, gli eterosessuali, ecc.), sono considerati portatori di un discorso astratto teso a veicolare, in termini fintamente neutrali, i correnti rapporti di dominio. La decostruzione di quell’astrazione, tesa a presentare in termini naturali quello che è un dominio storico (una effettiva linea di divisione sociale con dominanti e subalterni), si lega così a un’epistemologia che tende a rifiutare ogni portato oggettivante, sostenendo, in un’attitudine che si può chiamare relativista, la necessità di far emergere i punti di vista alternativi e le voci di quei subalterni. Queste voci sono state silenziate tanto dalla coatta neutralità imposta dai dominanti (i bianchi, i maschi, gli etero che agiscono e parlano a nome dell’umanità tutta), quanto dalla stessa chiusura dei subalterni (black and brown, donne, gay, ecc.) in identità stereotipiche funzionali al discorso di potere, vale a dire all’esclusione dalla sfera del potere dei non-corrispondenti alle finzionali caratteristiche del neutro dominante. L’essenzialismo da quest’ultimo creato è così di conseguenza il principale bersaglio teorico, e l’anti-essenzialismo relativizzante diventa immediatamente prassi resistenziale. A differenza del marxismo tradizionale qui il potere non è identificato in un preciso settore sociale (i capitalisti) a partire dal quale si formerebbero gli altri rapporti di dominio (a cominciare da quelli politici), perché il potere stesso si connette qui con tutte quelle attitudini sociali (tendenzialmente infinite) tese a naturalizzare l’Altro (e sorge qui il politically correct del linguaggio) nella propria prospettiva. Ecco che lo sguardo anti-essenzialista tende inevitabilmente, per sua stessa natura teorica, ad allargarsi sempre di più, rivelando, all’interno dell’insieme sociale, rapporti dominanti/subalterni che si muovono in maniera inaspettata e rizomatica. Una volta che il meccanismo anti-identitario e anti-oggettivante invade la relazione dominanti-subalterni, questa stessa relazione tende a farsi problematica, perché rischia di frantumare all’infinito il soggetto resistenziale/rivoluzionario (non a caso tali teorie, trovando pochissimo ascolta a destra, tendono più ad avventarsi contro altri soggetti dello schieramento di sinistra). Qui, nel livello socializzato e banalizzato di tali teorie, si creano divertenti cortocircuiti di vario tipo. Nella variante liberale si può arrivare a difendere il capitalismo purché metà dei posti di potere siano assegnati alle donne; nella variante radicale ci si può rifiutare a votare Bernie Sanders perché “class reductionist”; nella variante ultra-culturalista si può eliminare dai curricula universitari libri, termini o vocali considerati problematici; nella variante idiota – e non senza qualche sospetto che tali proposte vengano da intellettuali di destra camuffati – si possono criticare gli scacchi perché vi “muove prima il bianco”. Ma è sempre qui invece che gli intellettuali di punta di tale settore ideologico (come Gayatri Spivak e Luce Irigaray), ben consci dei problemi operativi legati all’anti-essenzialismo, elaborano risposte teoricamente adeguate, come ad esempio il concetto di “essenzialismo strategico”. In tale ottica, benché permanga a livello epistemologico la coscienza delle linee divisive esistenti fra i membri di un gruppo socio-politico, queste vengono temporaneamente messe da parte per garantire al medesimo soggetto sociale coesione, e dunque possibilità operative. Qui sorgono le identity politics. Per estremo paradosso, e questo sarà il tema al centro di Critica dell’identità, un approccio politico di tipo rigidamente anti-essenzialista trova proprio in un fortissimo nesso identitario (ma a patto che l’identità in questione sia avvertita come subalterna) la propria principale modalità di operazione politica. La storicizzazione di tale paradosso teorico è il punto di partenza di Critica dell’identità, e il presupposto all’interno del quale analizzerò alcune dei più importanti capisaldi teorici di tale temperie culturale, analizzando questi tanto all’interno del lavoro degli intellettuali di punta quanto sul piano della socializzazione delle idee di questi, perché se è vero che è intellettualmente ingiusto giudicare una teoria dal piano della socializzazione, è altrettanto vero che il piano in cui le teorie si socializzano è quello più direttamente dominato dalle egemonie correnti, ed è qui che tali teorie, talvolta, si rivelano al servizio di queste stesse egemonie. La mia idea è che anti-essenzialismo epistemologico e ultra-essenzialismo delle identity politics operino insieme non fra loro in contraddizione, ma sulla base di comuni presupposti oggettivanti. Le identity politics secondo il consueto meccanismo dell’oggettivazione identitaria (sebbene ora in senso apparentemente progressivo), la teoria epistemologica anti-identitaria mediante l’immobilizzazione del nesso dialettico fra teoria e prassi, e dunque fra teoria e storia, in quanto tesa a presentare se stessa non come riflesso di determinati nessi storici, ma come portato ultimo di un’epistemologia che non vuole riconoscersi in rapporto dialettico alla prassi sociale, riproponendo in tal modo lo stesso desiderio di staticità che è alla base del funzionamento proprio della prassi sociale e di chi ancora la determina. L’anti-essenzialismo è a mio giudizio una teoria essenzialistica, perché concepisce l’identità in ogni caso a partire dall’idea di un Essere invece di un Fare, e su questa via non comprende il soggetto, come invece faceva il marxismo, a partire dalla sua concreta posizione all’interno delle relazioni sociali (ciò che il soggetto fa), ma solo a partire da sue pre-selezionate caratteristiche (ciò che il soggetto è, o non-è). E credo sia proprio tale opzione focalizzata sull’Essere (e sul non-Essere) a permettere la crescita esponenziale di tale temperie intellettuale all’interno di una prospettiva spesso (non sempre) puramente culturalista, fraintendendo l’assunto gramsciano sull’azione congiunta di lotta prammatica e culturale, accettando cioè modifiche puramente culturali allo status quo e intendendo direttamente quest’ultime come prassi. Critica dell’identità non vuole dunque essere né semplicemente una requisitoria contro le prospettive politiche di tipo postmodernista, né una semplice invettiva (già spesso fatta) contro le politiche identitarie, ma vuole essere anzitutto spiegazione del nesso esistente fra questi due apparentemente contraddittori posizionamenti. E ciò non semplicemente per criticare lo sviluppo degli attuali movimenti resistenziali (per me anzi sempre benvenuti), ma per tentare di chiarirne proprio l’attitudine culturalista; cercando, nello spiegare la connessione della sua ideologia col piano materiale, di rilanciarne proprio l’attitudine prammatica. Non è un caso, se si vuole sottolineare un macro-sintomo, che tutte queste attitudini culturali presentino i propri avversari in una condizione di “fragilità” (abbiamo una “white fragility”, come un “male fragility” e una “straight fragility”), ma poi, benché le stesse teorie spesso affermino che l’attacco al maschio bianco eterosessuale sia anche un attacco al capitalismo (cioè a quelle prospettive di dominio culturale di cui il capitalismo ha bisogno per sussistere), mai è emersa in esse, perché semplicemente sarebbe ridicolo nella situazione materiale che viviamo, lo spettro di una “bourgeois fragility”. In questo sintomo la sfera materiale, possiamo dire, si prende la sua rivincita sulle prospettive culturaliste.

Guerre culturali e neoliberismo

Mimmo (Domenico) Cangiano
2024-01-01

Abstract

Si avverte un’aria di famiglia fra le varie teorie politiche (tendenzialmente di sinistra) che di recente stanno arrivando in Europa dagli Stati Uniti. Sebbene queste si presentino quanto mai varie per ciò che concerne modalità operative, obiettivi finali, scelta dei soggetti politici di riferimento, un paio di immediatamente visibili capisaldi teorici le pongono all’interno di una tradizione condivisa, una tradizione che di volta in volta è state definita come postmodernismo, post-strutturalismo, costruttivismo radicale o, a destra, marxismo culturale. L’aria di famiglia sorge dal sostrato comune che queste teorie ospitano in termini di approccio epistemologico e politica identitaria. L’approccio epistemologico è largamente costruito a partire dal concetto di astrazione: i rapporti di potere vigenti, e in questi l’elemento dominante (i bianchi, i maschi, gli eterosessuali, ecc.), sono considerati portatori di un discorso astratto teso a veicolare, in termini fintamente neutrali, i correnti rapporti di dominio. La decostruzione di quell’astrazione, tesa a presentare in termini naturali quello che è un dominio storico (una effettiva linea di divisione sociale con dominanti e subalterni), si lega così a un’epistemologia che tende a rifiutare ogni portato oggettivante, sostenendo, in un’attitudine che si può chiamare relativista, la necessità di far emergere i punti di vista alternativi e le voci di quei subalterni. Queste voci sono state silenziate tanto dalla coatta neutralità imposta dai dominanti (i bianchi, i maschi, gli etero che agiscono e parlano a nome dell’umanità tutta), quanto dalla stessa chiusura dei subalterni (black and brown, donne, gay, ecc.) in identità stereotipiche funzionali al discorso di potere, vale a dire all’esclusione dalla sfera del potere dei non-corrispondenti alle finzionali caratteristiche del neutro dominante. L’essenzialismo da quest’ultimo creato è così di conseguenza il principale bersaglio teorico, e l’anti-essenzialismo relativizzante diventa immediatamente prassi resistenziale. A differenza del marxismo tradizionale qui il potere non è identificato in un preciso settore sociale (i capitalisti) a partire dal quale si formerebbero gli altri rapporti di dominio (a cominciare da quelli politici), perché il potere stesso si connette qui con tutte quelle attitudini sociali (tendenzialmente infinite) tese a naturalizzare l’Altro (e sorge qui il politically correct del linguaggio) nella propria prospettiva. Ecco che lo sguardo anti-essenzialista tende inevitabilmente, per sua stessa natura teorica, ad allargarsi sempre di più, rivelando, all’interno dell’insieme sociale, rapporti dominanti/subalterni che si muovono in maniera inaspettata e rizomatica. Una volta che il meccanismo anti-identitario e anti-oggettivante invade la relazione dominanti-subalterni, questa stessa relazione tende a farsi problematica, perché rischia di frantumare all’infinito il soggetto resistenziale/rivoluzionario (non a caso tali teorie, trovando pochissimo ascolta a destra, tendono più ad avventarsi contro altri soggetti dello schieramento di sinistra). Qui, nel livello socializzato e banalizzato di tali teorie, si creano divertenti cortocircuiti di vario tipo. Nella variante liberale si può arrivare a difendere il capitalismo purché metà dei posti di potere siano assegnati alle donne; nella variante radicale ci si può rifiutare a votare Bernie Sanders perché “class reductionist”; nella variante ultra-culturalista si può eliminare dai curricula universitari libri, termini o vocali considerati problematici; nella variante idiota – e non senza qualche sospetto che tali proposte vengano da intellettuali di destra camuffati – si possono criticare gli scacchi perché vi “muove prima il bianco”. Ma è sempre qui invece che gli intellettuali di punta di tale settore ideologico (come Gayatri Spivak e Luce Irigaray), ben consci dei problemi operativi legati all’anti-essenzialismo, elaborano risposte teoricamente adeguate, come ad esempio il concetto di “essenzialismo strategico”. In tale ottica, benché permanga a livello epistemologico la coscienza delle linee divisive esistenti fra i membri di un gruppo socio-politico, queste vengono temporaneamente messe da parte per garantire al medesimo soggetto sociale coesione, e dunque possibilità operative. Qui sorgono le identity politics. Per estremo paradosso, e questo sarà il tema al centro di Critica dell’identità, un approccio politico di tipo rigidamente anti-essenzialista trova proprio in un fortissimo nesso identitario (ma a patto che l’identità in questione sia avvertita come subalterna) la propria principale modalità di operazione politica. La storicizzazione di tale paradosso teorico è il punto di partenza di Critica dell’identità, e il presupposto all’interno del quale analizzerò alcune dei più importanti capisaldi teorici di tale temperie culturale, analizzando questi tanto all’interno del lavoro degli intellettuali di punta quanto sul piano della socializzazione delle idee di questi, perché se è vero che è intellettualmente ingiusto giudicare una teoria dal piano della socializzazione, è altrettanto vero che il piano in cui le teorie si socializzano è quello più direttamente dominato dalle egemonie correnti, ed è qui che tali teorie, talvolta, si rivelano al servizio di queste stesse egemonie. La mia idea è che anti-essenzialismo epistemologico e ultra-essenzialismo delle identity politics operino insieme non fra loro in contraddizione, ma sulla base di comuni presupposti oggettivanti. Le identity politics secondo il consueto meccanismo dell’oggettivazione identitaria (sebbene ora in senso apparentemente progressivo), la teoria epistemologica anti-identitaria mediante l’immobilizzazione del nesso dialettico fra teoria e prassi, e dunque fra teoria e storia, in quanto tesa a presentare se stessa non come riflesso di determinati nessi storici, ma come portato ultimo di un’epistemologia che non vuole riconoscersi in rapporto dialettico alla prassi sociale, riproponendo in tal modo lo stesso desiderio di staticità che è alla base del funzionamento proprio della prassi sociale e di chi ancora la determina. L’anti-essenzialismo è a mio giudizio una teoria essenzialistica, perché concepisce l’identità in ogni caso a partire dall’idea di un Essere invece di un Fare, e su questa via non comprende il soggetto, come invece faceva il marxismo, a partire dalla sua concreta posizione all’interno delle relazioni sociali (ciò che il soggetto fa), ma solo a partire da sue pre-selezionate caratteristiche (ciò che il soggetto è, o non-è). E credo sia proprio tale opzione focalizzata sull’Essere (e sul non-Essere) a permettere la crescita esponenziale di tale temperie intellettuale all’interno di una prospettiva spesso (non sempre) puramente culturalista, fraintendendo l’assunto gramsciano sull’azione congiunta di lotta prammatica e culturale, accettando cioè modifiche puramente culturali allo status quo e intendendo direttamente quest’ultime come prassi. Critica dell’identità non vuole dunque essere né semplicemente una requisitoria contro le prospettive politiche di tipo postmodernista, né una semplice invettiva (già spesso fatta) contro le politiche identitarie, ma vuole essere anzitutto spiegazione del nesso esistente fra questi due apparentemente contraddittori posizionamenti. E ciò non semplicemente per criticare lo sviluppo degli attuali movimenti resistenziali (per me anzi sempre benvenuti), ma per tentare di chiarirne proprio l’attitudine culturalista; cercando, nello spiegare la connessione della sua ideologia col piano materiale, di rilanciarne proprio l’attitudine prammatica. Non è un caso, se si vuole sottolineare un macro-sintomo, che tutte queste attitudini culturali presentino i propri avversari in una condizione di “fragilità” (abbiamo una “white fragility”, come un “male fragility” e una “straight fragility”), ma poi, benché le stesse teorie spesso affermino che l’attacco al maschio bianco eterosessuale sia anche un attacco al capitalismo (cioè a quelle prospettive di dominio culturale di cui il capitalismo ha bisogno per sussistere), mai è emersa in esse, perché semplicemente sarebbe ridicolo nella situazione materiale che viviamo, lo spettro di una “bourgeois fragility”. In questo sintomo la sfera materiale, possiamo dire, si prende la sua rivincita sulle prospettive culturaliste.
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